Schiavi dell’algoritmo?

Dopo la fine della pandemia le principali aziende della Silicon Valley hanno effettuato massicci licenziamenti di personale: 150.000 persone, un terzo delle quali tagliate dalle sole Facebook (Meta), Google (Alphabet), Amazon e Microsoft. Fin qui nulla di nuovo. Quello che ha destato scalpore è che questa imponente massa di licenziamenti sia avvenuta nel giro di pochi minuti. Le aziende non lo confermano ma sembra certo che le procedure di selezione del personale da estromettere siano state affidate ad algoritmi aziendali, tanto è vero che, per una curiosa nemesi, i primi ad essere licenziati sono stati proprio gli impiegati alle risorse umane che infatti (secondo dati riportati da “Affari e Finanza” del 13 marzo) ammontano al 28 % del totale. Non servono più, visto che il loro lavoro viene svolto (e meglio) automaticamente.

In un precedente articolo (UN 15/2023) abbiamo evidenziato la sempre maggiore diffusione del lavoro per una piattaforma digitale (Platform work) in cui la lavoratrice/ore vede la propria attività organizzata, monitorata e valutata in modo pervasivo da algoritmi imperscrutabili, senza aver mai contatti con dirigenti “umani”. L’algoritmo (a volte ha anche un nome, Frank per Deliveroo, Jarvis per Glovo) assegna il lavoro sulla base di un mix di elementi che tengono conto della “affidabilità” (ovvero la disponibilità a lavorare in qualunque condizione), del giudizio dei committenti e di altri fattori che le aziende cercano di tenere accuratamente segreti.

Ci sono casi estremi come quello del rider fiorentino Sebastian Galassi, travolto da un’auto mentre faceva le consegne e licenziato post mortem dall’algoritmo per il giudizio negativo di un cliente. Questo tragico evento dovrebbe farci riflettere. Quando postiamo un giudizio negativo su un servizio di cui abbiamo fruito stiamo forse decidendo della sorte di un’altra persona. Ecco il motivo della preoccupazione con cui la lavoratrice del call center che abbiamo contattato ci raccomanda di lasciare una valutazione al termine della chiamata… evitiamo di trasformarci in complici di questo sfruttamento !

Non è un caso che una delle principali rivendicazioni dei rider sia sempre stata quella di rendere trasparente l’algoritmo che governa il loro lavoro, una richiesta che aveva trovato un parziale accoglimento nel “Decreto Trasparenza” (varato dal governo Draghi) che, peraltro dando applicazione a una direttiva europea, aveva stabilito il diritto di accesso all’algoritmo a favore dei lavoratori delle piattaforme. Ne era seguita una serie di cause in tribunale da parte dei dipendenti. Sull’argomento è però intervenuto il governo Meloni con il “Decreto Lavoro” del 1° maggio che, tra le altre porcherie, ha cancellato quest’obbligo. Il pretesto è stato ovviamente quello di «liberare il datore di lavoro da gravosi obblighi in materia di comunicazioni ai lavoratori», semplificando la normativa. Nei fatti l’articolo 26 comma 2 b del nuovo decreto prevede che sono esclusi dall’obbligo di comunicazione i “sistemi protetti da segreto industriale e commerciale” (quali appunto gli algoritmi) e il gioco è fatto.

Ma in un certo senso siamo tutte/i “platform worker”, anche se non ce ne rendiamo conto. Gli algoritmi stanno diventando sempre più pervasivi nella nostra vita quotidiana portandoci a forme sempre più sottili di sfruttamento. Pensiamo a piattaforme di largo uso come Facebook, Tiktok, Instagram, Booking.com, Airbnb… basate sull’illusione della sharing economy (economia della condivisione): oltre ad assorbire i nostri preziosissimi dati personali (che poi verranno venduti e rivenduti) ci inducono a lavorare gratis per loro creando contenuti che rendono attrattiva la piattaforma stessa.

Le recensioni lasciate su Booking.com e siti simili, costituiscono un prezioso valore aggiunto alle schede dei vari hotel e permettono di attirare sempre nuovi clienti, le valutazioni sui fattorini di Glovo o sugli autisti di Uber consentono all’azienda di esercitare un controllo orwelliano sui loro dipendenti, i post delle nostre vacanze su Facebook fidelizzano i nostri “amici” a cui può essere propinata sempre nuova pubblicità…

Alla vecchia figura del “consumatore” si va sostituendo quella del “produttore-consumatore” (“prosumer”) che produce lui stesso (gratis) i contenuti della piattaforma e ne usa i servizi (pagandoli con i propri dati personali). Certo, ci sono anche utenti che ci guadagnano, come gli influencer e gli youtuber di successo ma nel mondo del capitale i “sommersi” sono sempre infinitamente di più dei “salvati”.

Forse, in qualche romanzo di fantascienza, vedremo l’algoritmo licenziare i capitalisti che stanno a capo dell’azienda ma nel mondo reale licenziare i capitalisti spetta solo a noi!

Mauro De Agostini

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